LA GRANDE IDEA STURZIANA DELLA LIBERTA’ di Mario Adinolfi

Alla fine di febbraio del 1989, da giovanissimo dirigente del Movimento Giovanile della DC, partecipai a quello che mai avrei potuto immaginare essere l’ultimo congresso nazionale della Democrazia Cristiana. Non ce ne sarebbero stati altri, il ciclone Tangentopoli nel 1992 spazzò via Arnaldo Forlani che in quel congresso fu eletto segretario, un Consiglio nazionale terrorizzato si affidò a Mino Martinazzoli che un anno dopo sciolse la DC e fece rinascere il Partito popolare italiano.

Martinazzoli lasciò poi per sempre il palcoscenico politico nazionale nel 1994, perché gli venne imputata la sconfitta del Ppi che aprì la strada al primo governo Berlusconi. Per il ruolo dei cattolici in politica fu l’inizio della fine, il Ppi si sbriciolò in mille rivoli e si finì per essere schegge sempre meno rilevanti fino a questa diciottesima legislatura in cui è completamente assente dal Parlamento un gruppo di chiara ispirazione cristiana e alle elezioni del 4 marzo 2018 l’unico movimento a riferirsi esplicitamente alla lezione sturziana era il Popolo della Famiglia, che ha tenuto accesso la fiammella raccogliendo 220mila voti.

Voglio riavvolgere il nastro e portarvi a quando tutto doveva ancora accadere, a quel congresso del febbraio 1989, a trent’anni fa. Ero al Palaeur, zeppo all’inverosimile, avevo 17 anni e aspettavo come tanti l’intervento di Mino Martinazzoli, il mio maestro politico che mi chiamò poi a essere il più giovane membro dell’assemblea costituente del nuovo Partito popolare italiano, di cui avrei guidato da presidente nazionale il movimento giovanile (e mi emoziona pensare che il 2 marzo nascerà a Roma prossimo il movimento giovanile del Popolo della Famiglia, grazie a Nicola Di Matteo). Su YouTube è comparso il video di quell’intervento di Martinazzoli e so di chiedere un lavoro impensabile ai tempi di internet, ma ascoltatevi i trenta minuti scarsi di discorso e guardate anche cosa succede nei quindici minuti successivi. Si tratta di un documento storico di impressionante rilevanza.

Intanto per la partecipazione popolare. Il catino del Palaur letteralmente ribolliva con quindicimila persone stipate, in rappresentanza di circa due milioni di iscritti alla Dc, duecentottantamila solo al “mio” Movimento giovanile. Oggi il M5S ci spiega la virtù salvifica della piattaforma Rousseau che ha centomila iscritti e cinquantamila che votano, spiegando che quella è la democrazia diretta. Io la democrazia diretta l’ho vista praticare negli infiniti congressi di partito dove davvero uno valeva uno e anche un giovanissimo singolo iscritto come me, se aveva qualità e capacità aggregative poteva dire la sua, dal congresso di sezione fino a quello nazionale. Una palestra eccezionale dove formarsi sia alla elaborazione di idee sensate che al rispetto dell’avversario, in una comunità di donne e di uomini che davvero viveva in una condizione di “fratellanza” nonostante la lotta politica fosse durissima, la divisione in correnti feroce.

Ecco, quando Martinazzoli sale sul podio del Palaeur per il suo intervento congressuale parla a nome della corrente perdente. Mino è uno sconfitto, sosteneva la segreteria De Mita e quello è il momento in cui l’avversario interno Forlani sta per essere eletto al suo posto. Martinazzoli è sideralmente superiore a Forlani, da ogni punto di vista. Ma le prime parole dal podio, dove è sommerso dagli applausi al punto da non riuscire ad avviare il discorso, sono proprio quelle di uno che sembra annunciare la resa: “Voterò con convinzione Arnaldo Forlani”. Quando finirà di parlare guardatevi i quindici minuti di applausi che inutilmente Amintore Fanfani (oh, dico, Amintore Fanfani) prova a interrompere per dare la parola all’oratore successivo (che poi sarebbe Flaminio Piccoli, altro ex segretario nazionale e della corrente vincente, non uno qualsiasi). Guardate la platea che invoca Mino, che urla a gran voce “segretario, segretario”. E guardate lui, Martinazzoli. Che scappa, si ritrae, esce dal Palaeur infastidito, quando i suoi lo costringono a rientrare irritato da tanti applausi se ne va di nuovo. Eppure, vox populi vox Dei. Se quel congresso di trent’anni fa avesse eletto Martinazzoli invece di Forlani, forse la storia sarebbe andata in maniera differente.

Il discorso di Martinazzoli è totalmente a braccio, non ha neanche un appunto e lo dice fin dall’inizio chiedendo silenzio. Parlerà come un libro stampato, con un linguaggio dall’incredibile complessità e insieme assolutamente nitido, francamente incomparabile a qualsiasi protagonista della politica di oggi. Ci sono squarci assolutamente profetici come quando chiede alla Dc di aprirsi a una riforma elettorale che altrimenti sarà fatta senza la Dc e contro la Dc, quasi vedesse che i referendum di Segni potessero essere l’inizio della valanga che l’avrebbe travolta e così effettivamente fu. Ma questa mia sottolineatura del discorso di Martinazzoli del febbraio 1989 all’ultimo congresso della Democrazia Cristiana non vuole essere una polverosa ricostruzione storica e neanche un tuffo nel passato, nei ricordi di quando ero giovane. Credo che quel discorso, prima che tutto si accartocciasse, contenga i semi utili alla ripartenza.

Martinazzoli a un certo punto dice: “La storia politica è la storia di un’idea che si incarna, si confronta, combatte, è sconfitta, riprende: questa era la grande idea sturziana della libertà. Se non offriamo questo terreno allora davvero si perderà il grande giacimento morale, lungo gli schemi di un radicalismo di massa che insegue mode e movimenti quasi in una sindrome di Stoccolma. Si coglie qui la nostra grande questione: fare politica da parte di un cristiano assomiglia a un paradosso. Fare politica per un cristiano è insieme impossibile e doveroso. E’ sul crinale di questo paradosso che si svolge la nostra vita, se volete la nostra inquietudine. Sturzo l’ha insegnato una volta per tutte: la religione è universale, la politica è parziale, non vi è compromissione, chi sta in politica sceglie il dato della laicità. Ma questa è una condizione non è la positività di un contenuto e di una ispirazione. Oggi il nostro problema è capire come facciamo a fondare per noi rispetto a una laicità laicista quella che chiamerei una laicità cattolica. Questo in un tempo, quella della modernità, che non esige da parte nostra maledizioni o ostilità, ma piuttosto una lettura critica”.

Davvero non riesco a immaginare nulla di più chiaro per spiegare la sfida che ci attende, così come non possiamo che ritrovarci tutti insieme nelle conclusioni del discorso di Mino Martinazzoli all’ultimo congresso della Democrazia Cristiana del febbraio 1989: “Io penso che le vittorie, quelle che davvero contano, non stanno dentro la vita singolare di ciascuno. Mi sono chiesto spesso come possa accadere che ciascuno di noi vorrebbe essere meglio di quel che è, più libero, più intenso. Dobbiamo costruire una nostra rinnovata unità, siamo evocati per essere parti di una impresa comune, chiamati alla nostra singolare responsabilità. Ieri Forlani evocava un proverbio persiano, Scotti una metafora persiana. Io che sono un provinciale voglia citare le parole di un prete della bassa padana. Ci diceva don Primo Mazzolari che noi dobbiamo attrezzarci per metterci un poco all’opposizione, all’opposizione di noi stessi: delle nostre grettezze e delle nostre paure, se vogliamo anche delle nostre ambizioni. Io credo che quando ciascuno di noi riflette fuori dal fuoco della controversia, illimpidendo stati d’animo e percezioni di scontro o d’incomprensione, sa che alla fine di questo nostro impegno non c’è una soddisfazione personale che valga l’idea di avere servito senza inganni e senza rimorsi, questa grandezza, questa ragionevole speranza, questa splendida intuizione che è una idea democratica e cristiana”.

Seguirono quindici minuti d’applausi. Quindici minuti che per me durano trent’anni. Se penso a Renzi, Di Maio e Salvini mi scappa da piangere. Dobbiamo assolutamente ripartire per costruire qualcosa che sfugga al “niente della politica” (altro passaggio profetico di quel discorso) a cui costoro ci hanno condotti. Perché la politica è decisiva e bella, se fatta con spirito di fratellanza, tutto da recuperare da quelle immagini di trent’anni fa.